Il mio intervento all’Assemblea nazionale di Articolo 21, ad Assisi. Lì abbiamo sottoscritto il “Manifesto contro i muri mediatici”, al motto di “abbattiamo i muri dell’ignoranza”
Di Marilù Mastrogiovanni
Per comprendere fino in fondo quanto le querele temerarie costruiscano muri tra i cittadini e il loro diritto ad essere informati, bisogna partire dai dati. Sono numeri forniti dal Ministero della Giustizia su richiesta di Ossigeno per l’Informazione, l’osservatorio sui giornalisti minacciati diretto da Alberto Spampinato.
Ossigeno li ha elaborati ed interpretati e ha fornito un quadro davvero drammatico del livello della libertà d’informazione in Italia, misurato col parametro dell’effetto bavaglio che le querele temerarie hanno sui giornalisti.
Ogni anno vengono definiti dai tribunali italiani 6813 procedimenti, sono condannati 155 giornalisti e si comminano pene detentive pari a 103 anni di carcere in totale.
E ancora (i dati sono aggiornati al 2015): 5125 querele infondate (quasi il 90% del totale); 911 citazioni per risarcimento; 45,6 milioni di euro di richieste danni; 54 milioni di euro di spese legali; 2 anni e mezzo per essere prosciolti; 6 anni per la sentenza di primo grado.
Trenta giornalisti vivono sotto scorta, 3.000 hanno denunciato minacce ad Ossigeno; 30.000 hanno subito intimidazioni (il 40% con querele pretestuose)
la prescrizione lascia in piedi le cause civili e oggi, con l’obbligatorietà della mediazione, si traducono in spese e tasse certe per il giornalista
A fronte di questa mole di dati e di querele, le remissioni di querela sono pari al 32,4%; le assoluzioni pari al 26,4%; reclusioni pari al 9,4%, multe 20,4% prescrizione 5,2% altro 6,2%.
Le proiezioni di Ossigeno ci dicono che nel quadriennio 2010-13 i procedimenti per diffamazione a mezzo stampa sono aumentati dell’8% annuo, dunque, dal momento che l’iter per l’approvazione di una legge che argini le querele temerarie è fermo, a partire da quest’anno in poi i procedimenti penali potrebbero arrivare a 7.500 l’anno.
Considerati i tempi per arrivare al secondo grado di giudizio, un processo arriva in Appello già prescritto. Questo fa sì che cresca di anno in anno il muro tra il diritto dei cittadini ad essere informati e l’accesso all’informazione. Infatti la spada di Damocle del processo si traduce in un “chilling effect” sul giornalista e sul giornale: un effetto paralizzante che induce i vertici di quella testata (e anche il giornalista) ad essere molto cauti sull’argomento che ha generato la querela, se non ad evitare addirittura di trattarlo. L’autocensura insomma è una naturale conseguenza.
Quindi: la macchina della giustizia gira a vuoto, in affanno per definire migliaia di processi che portano quasi a nulla, perché le querele avevano quell’unico scopo, ossia far girare a vuoto a macchina della giustizia, intimidire il giornalista.
Per questo diventano urgenti norme deterrenti, per fare in modo che il querelante, in caso di archiviazione, sia in automatico condannato a pagare le spese.
Tuttavia la prescrizione lascia in piedi le cause civili e oggi, con l’obbligatorietà della mediazione, si traducono in spese e tasse certe per il giornalista. Siccome poi la maggior parte dei giornalisti non ha la copertura degli editori, quel lavorìo a vuoto della macchina della giustizia ha l’unico effetto certo di paralizzare soprattutto i cronisti precari e di “frontiera”, quelli che, in periferia, fanno davvero e concretamente da tramite tra i cittadini e le notizie. Quelli che sono un presidio di legalità, un “numero verde” per le fasce sociali più deboli.
Diventa perciò indispensabile, direi emergenziale, illuminare le periferie, aumentare la tutela legale, anche chiamando a raccolta le avvocate e gli avvocati impegnati sul fronte della tutela della libertà di stampa che vogliano gratuitamente costruire uno “scudo” a protezione dei giornalisti.
Questo è necessario: perché le minacce e le querele sono in aumento, perché vengono utilizzati sempre nuovi metodi e nuovi media per minacciare.
I social e il web sono la nuova arena dove lo scontro è più sanguinoso.
L’hate speech, il linguaggio dell’odio assume una caratterizzazione specifica quando è rivolto alle giornaliste. Diventa una vera e propria violenza di genere, perché si ricorre ad insulti, offese e metodi denigratori che utilizzano tutta la gamma degli stereotipi sessisti di cultura tribale e patriarcale. Su questo declinazione della violenza di genere l’associazione Giulia giornaliste accende ininterrottamente un faro.
C’è una crescente insofferenza verso le giornaliste che fanno inchieste e inchieste di mafia. Molto meno verso i mafiosi, che sui social vengono invocati come eroi. Perché l’hate speech è tutto per i giornalisti mentre i boss riscuotono sempre più consenso?
Questo è un fenomeno che necessita di maggiore attenzione, di studi e monitoraggi e di grande autocritica.
Dobbiamo infine chiederci quali siano le nostre responsabilità nel foraggiare questa macchina dell’odio e perché le notizie che diamo e il modo in cui le diamo siano capaci di scatenare reazioni così sanguigne, se non sanguinarie verso alcuni target (sempre target deboli) mentre non riusciamo a creare un’opinione pubblica sana che ripudi la mafia e che riconosca i mafiosi dietro la loro faccia bella. La responsabilità è solo degli “altri”?
La lista di quello che i giornalisti hanno fatto per rompere il patto di lealtà con i lettori è lunga.
Adesso il prezzo lo pagano i giovani giornalisti, animati da grande passione e non ricambiati da un pubblico sempre più disincantato e diffidente.
Diventa emergenziale illuminare le periferie, aumentare la tutela legale, anche chiamando a raccolta le avvocate e gli avvocati impegnati sul fronte della tutela della libertà di stampa che vogliano gratuitamente costruire uno “scudo” a protezione dei giornalisti
Abbiamo bisogno di guardarci dentro, perché abbiamo perso l’anima della professione. E ricorriamo a “manifesti” per recuperare il senso di quello che facciamo, persi anche noi, nell’onnipotenza da tastiera, invece di perderci per le strade del mondo, a raccontarlo.
Noi giornaliste, la Cpo Fnsi con Giulia giornaliste, il 25 novembre ne lanceremo un altro, a Venezia: il manifesto per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e disparità attraverso parole e immagini.
Iniziative ormai indispensabili, anche se, a guardarli bene, i cari vecchi ferri del mestiere, sono così pochi, rudimentali, perfino banali, si declinano facilmente su tutti i media, su ogni tecnologia, su ogni device e si riassumono in una parola: autorevolezza. L’abbiamo persa, ed è solo nostra responsabilità. La perdita della nostra autorevolezza ha costruito i muri d’ignoranza (notizie ignorate, dimenticate, distorte, false, manipolate) e solo con l’autorevolezza possiamo abbattere quegli stessi muri. Questa deve essere la nostra “buona notizia”, dobbiamo essere testimoni di verità, anche con la irreprensibile condotta della nostra vita.
Dobbiamo riuscirci.