Invisibili per 76 anni: la Consulta dice “basta”

Invisibili per 76 anni: la Consulta dice “basta”

di Marilù Mastrogiovanni

Da oggi, per legge, le donne hanno smesso di essere invisibili.

Perché da oggi è incostituzionale dare in automatico il solo cognome del padre ai figli.

Si dovranno dare entrambi i cognomi, nell’ordine che i genitori decideranno oppure solo uno dei due cognomi, anche solo quello della madre.

Ci abbiamo impiegato X anni. Quanti?

Non saprei da quando iniziare il count down verso la civiltà.

Diciamo che da 76 anni, da quando cioè ha emesso il primo vagito la Repubblica italiana, nel 1946, le donne hanno iniziato a impegnarsi perché venissero “viste”, dal Legislatore e dalla società, loro come persone e i loro diritti in quanto persone.

Poter trasmettere il proprio cognome ha a che vedere con la propria capacità e possibilità di autodeterminarsi, affermando la propria identità, in continuità con un altro essere umano che abbiamo generato o di cui vogliamo prenderci cura anche se non ha il nostro sangue.

Anche poter mantenere il proprio cognome, è un diritto.

E’ il diritto di rimanere noi stesse, anche se decidiamo di unirci in matrimonio. Il matrimonio, dovrebbe avere a che fare solo con il cambio del proprio stato civile e questo non comporta certo un cambiamento della nostra identità.

Eppure, l’articolo 143 bis del Codice Civile è ancora in vigore e recita espressamente “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”.

Incredibile, ma è così.

Ce ne dimentichiamo, perché ormai sono pochissime a farlo, esercitando un diritto, non un obbligo.

E non è più un obbligo, perché, ancora una volta, è intervenuta la Corte di Cassazione (sentenza n. 1692 del 13 luglio 1961) per chiarire che quell’articolo, il 143 del Codice civile, sancisce un diritto che la donna può o no esercitare.

Tuttavia, proprio perché l’articolo 143 non è stato abrogato, dunque è in vigore, accade che, senza la nostra autorizzazione né il consenso, su alcuni documenti ufficiali venga accostato al nostro cognome quello del marito, “fino a che non si passi a nuove nozze”. Vale a dire fino a che non passiamo da una proprietà all’altra.

Esempio: accade sulle schede elettorali.

Il documento per eccellenza, che sancisce il nostro diritto di far parte dell’elettorato attivo, di averne pieni diritti e doveri, di essere cittadine. Lì, troviamo il cognome del coniuge.

Un vulnus da eliminare.

Ho promosso una petizione, che ha raggiunto quasi le 50mila firme.

Quando arriveremo a 50mila, presenteremo le firme ai presidenti delle due Camere, affinché sollecitino il Parlamento a modificare il Codice. Potete firmare qui

Il Parlamento, dovrà anche abrogare le norme, da oggi incostituzionali, che rendono automatica l’attribuzione del solo cognome del padre ai figli.

Perché se è vero che ci siamo impegnate per decenni in un’operazione culturale e politica che facesse passare nell’opinione pubblica il messaggio che siamo persone (né più né meno dei maschi) e in quanto tali la nostra identità va rispettata, a partire dal nome e dalle scelte che riguardano il nostro corpo, è anche vero che la risposta della Consulta è stata ancor più visionaria e rivoluzionaria: è il diritto dei figli che viene leso, non quello delle madri, se non secondariamente. Viene leso, dando loro il solo cognome del padre, il diritto fondamentale alla propria identità, sancito dagli articoli articoli 2, 3 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Questo deliberato spazza via ogni possibilità di fraintendimento, di qualunquismi, di si, ma, però.

Si guarda ai diritti dei bambini, si guarda al futuro.

Questa decisione rende tutto semplice, non è divisiva, non contrappone gli uomini alle donne, ma ci accomuna tutte e tutti, in quanto vittime, finora, dello stesso sistema patriarcale, quello che ci ha visto come estensione della proprietà maschile che ci ha marchiato col suo nome.

Invece, d’ora in poi, la Corte Costituzionale, ci chiede di non guardare alla proprietà, ma all’esserino che abbiamo davanti, portatore di diritti, che noi dobbiamo tutelare.

Marilù Mastrogiovanni
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