di Marilù Mastrogiovanni
Fra poche ore sarò sottoposta a due interrogatori in due diversi processi.
Vi ricordate? È già successo pochi mesi fa. Erano altri due processi, davanti ad altra giudice.
Un’aula del Tribunale di Lecce e una giudice bloccate per celebrare processi basati su querele temerarie.
In uno dovrò provare che sono state disposte per me misure di protezione, perché chi mi ha minacciata si è sentito diffamato dal fatto che lo Stato è presente, attento e attivo (e anche veloce) e mi ha protetta.
In un’altra dovrò dimostrare che tutto quello che ho scritto sull’operazione “Diarchia”, che ha decapitato il clan Montedoro-Potenza, è vero. Dovrò dimostrare che quello che ho scritto, citando le fonti documentali, corrisponde alla verità dei fatti.
Quanto tempo e quanta fatica sottratti alla mia vita, al mio lavoro, al mio impegno nel giornalismo e nell’accademia.
Giorni e giorni, per rispolverare la memoria dei fatti e mettere in ordine carte: si tratta di una querela del 2016: otto anni sotto scacco. Preoccupazione, paura, ansia, privazione della serenità.
Come me, tante giornaliste e giornalisti minacciati solo perché hanno fatto il proprio dovere. Il dovere di scrivere e non girarsi dall’altra parte. Il dovere di riconoscere una notizia, quando la vedono, e indicarla con un dito fatto di parole corrette, rispetto della deontologia, onore della verità dei fatti. Il dovere di cercarla, la notizia, sotto strati e strati di polvere di fatti apparentemente insignificanti, prenderla, analizzarla, lucidarla, esporla, spiegarla.
Un lavoro difficile e pericoloso, che si paga a caro prezzo.
E che facciamo, nonostante tutto, e che continueremo a fare. Perché la verità dei fatti è un bene comune e i giornalisti e le giornaliste continueranno a difenderla. E non pensate che sia un lavoro che non mette radici. È duro è improbo ma i semi che stiamo seminando fioriranno. Stanno già fiorendo. Perché chi getta semi al vento farà fiorire il cielo.