Il buffone beffato: Rigoletto apre la Stagione Lirica a Lecce

Il buffone beffato: Rigoletto apre la Stagione Lirica a Lecce

IL BUFFONE BEFFATO

Breve introduzione all’opera “Rigoletto” di Giuseppe Verdi, prima opera in Cartellone per la Stagione Lirica 2016 del Politeama Greco di Lecce.

fernando-greco-medico-neonatologo-critico-musicale-melomane-leccedi Fernando Greco

05_bozzetto di Giuseppe Bertoja per la prima assoluta - atto 1, parte 2

Bozzetto di Giuseppe Bertoja per la prima assoluta – atto 1, parte 2

 

In occasione dell’ingaggio per una nuova opera da rappresentarsi nel teatro La Fenice di Venezia durante la stagione di carnevale-quaresima del 1851, Giuseppe Verdi volse le sue attenzioni al dramma “Le roi s’amuse” (Il re si diverte) di Victor Hugo, massimo esponente del romanticismo francese, del quale nel 1844 aveva già musicato, sempre per La Fenice, il dramma “Ernani”. Fu proprio l’”Ernani” a segnare, insieme con il “Macbeth” (1847), la fine degli anni di galera e l’inizio di quell’evoluzione stilistica e drammaturgica che avrebbe condotto il compositore alla creazione dei capolavori della cosiddetta trilogia popolare ovvero “Rigoletto” (1851), “Il Trovatore” (1853) e “La Traviata” (1853).

 

UNA “RIBUTTANTE IMMORALITA’”

02_Victor Hugo in una foto di Étienne Carjat (1876)Affrancatosi definitivamente dalla poetica risorgimentale, il Bussetano si riconobbe nello spirito innovatore se non addirittura sovversivo di Victor Hugo (1802 – 1885) che, se da una parte aveva abolito alcune convenzioni formali del teatro classico quali l’aristotelica unità di tempo, di luogo e d’azione, dall’altra aveva reso protagonista la trivialità, scavando nel profondo dell’emarginazione e della deformità di figure indimenticabili come Quasimodo (il gobbo campanaro di “Notre Dame de Paris”) o come Rigoletto (il gobbo Triboulet di “Le roi s’amuse”) e scoprendovi un’umanità nobile e tormentata, in netto contrasto con la corruzione dei potenti.

Come l’ambientazione rinascimentale non era valsa a evitare a “Le roi s’amuse” problemi con la censura monarchica francese, così la gestazione dell’opera verdiana, intitolata originariamente “La maledizione”, fu ostacolata dalla censura austro-ungarica. Nel dicembre 1850 il cavaliere De Gorzkowski, governatore di Venezia, emise una sentenza di condanna, rimproverando agli autori il fatto “ch’essi non abbiano saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità” e diffidandoli “da ogni ulteriore insistenza in proposito”. Per tutta risposta Verdi scriveva a Marzari, impresario della Fenice, le seguenti parole: “Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”. Piuttosto che rinunciare alla sua nuova opera, Verdi preferì scendere a compromessi con la censura: l’ambientazione si spostò dalla corte di Francia al più decentrato ducato di Mantova, i nomi dei personaggi vennero tutti modificati rispetto all’originale francese e dulcis in fundo, una romanza del tenore sostituì, all’inizio del secondo atto, la scandalosa scena in cui il Re di Francia (divenuto ormai Duca di Mantova) si chiudeva a chiave in camera da letto con Gilda.

 

IL BELLO NEL DIFFORME

04_edizione cinematografica del 1954L’11 marzo 1851, il “Rigoletto” andò in scena riscuotendo un successo di pubblico talmente strepitoso da disarmare i critici, perplessi davanti al fatto che un’opera di impatto così dirompente con la tradizione avesse potuto incontrare i gusti del pubblico in maniera così incondizionata. All’indomani del debutto, sulla “Gazzetta di Venezia” comparve la seguente recensione:

“Un’opera come questa non si giudica in una sera. Ieri fummo come sopraffatti dalle novità: novità, o piuttosto stranezza, nel soggetto; novità nella musica, nello stile, nella stessa forma de’ pezzi, e non ce ne femmo un intero concetto. Sente qualche cosa come dell’opera semiseria; comincia con una canzone a ballo, ha per protagonista un gobbo; muove da un festino e si termina, non con troppa edificazione, in una casa senza nome, dove si vende l’amore e si contratta sulle vite degli uomini. […] Il maestro, o il poeta, cercarono il bello ideale nel difforme, nell’orrido, mirarono all’effetto, non per le usate vie della compassione e del terrore, ma dello strazio dell’anima e del raccapriccio. E nel vero, stupendo, mirabile è il lavoro dell’istrumentazione; quell’orchestra ti parla, ti piange, ti trasfonde la passione, quasi dissi, il concetto del cuore. […] Come pure leggiadrissima e tutta popolare per la facile e vivace cantilena, è una romanza del tenore nel terzo atto, ed ella cominciava già ieri sera a canticchiarsi dalle genti che uscian dal teatro; tanto intimamente l’avevan sentita”. Il brano in questione era “La donna è mobile”: lo stesso Verdi, conscio della facile orecchiabilità di tale romanza, aveva fatto giurare durante le prove non soltanto al tenore Raffaele Mirate, ma anche a tutto il personale del teatro, che nessuno, prima del debutto, l’avrebbe canticchiata all’esterno.

 

LA SACRALITA’ DEL PADRE

03_edizione cinematografica di 'Le roi s'amuse'  (1841)“Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grado”. Da queste parole che Verdi scrisse al librettista Francesco Maria Piave il 3 giugno 1850, all’indomani del nuovo ingaggio veneziano, si comprende come il topos della maledizione fosse per il musicista il motore della vicenda, il cui dipanarsi rappresenterà di fatto l’attuarsi di quella stessa maledizione. Con l’austera sacralità che l’etica verdiana attribuisce alla figura paterna, l’anatema scagliato da un padre colpito in quanto ha di più caro, ossia l’onore della figlia, non può rimanere senza effetto, soprattutto quando è indirizzato a un altro padre che, seppur compulso dal suo esser buffone di corte, ha peccato di eccessiva tracotanza. Il tema della maledizione compare fin dalla prima battuta della partitura, in quel singolo Do ribattuto che delinea il leitmotiv più semplice e più incisivo di tutta la storia del teatro lirico, e continuerà a serpeggiare per tutta l’opera, fino alla battuta finale, quando la scoperta del corpo della figlia segnerà per Rigoletto non solo l’attuarsi della maledizione, ma anche il fallimento del proprio tentativo di riscatto sociale.

 

IL PARADOSSO DEL CLOWN

06_il manifesto della primaL’interiore tormento del protagonista si appalesa appieno nel toccante monologo del primo atto, preceduto dal duetto con il sicario Sparafucile, per il quale Verdi utilizzò la tecnica del “parlante” mutuandola dalla “Lucrezia Borgia” di Donizetti (1833), guarda caso un’altra partitura tratta da un dramma di Hugo. Come nel dialogo tra Rustichello e Alfonso nella “Borgia”, così nell’incontro tra Rigoletto e Sparafucile la melodia non è espressa dal canto, ma dall’orchestra, mentre le voci si scambiano frasi spezzate, furtive, creando un momento di grande realismo scenico.

Partito il sicario, Rigoletto lamenta la sua deformità fisica, la sua etichetta di buffone di corte che lo obbliga a far ridere la gente sempre e comunque, indipendentemente dal proprio stato d’animo (“Non poter altro che ridere! Il retaggio d’ogni uom m’è tolto: il pianto!”). Si tratta di quello che potremmo definire “paradosso del clown”, paradosso con cui Rigoletto lotterà invano fino alla fine dell’opera, ossia fino all’illusoria quanto effimera sensazione della vittoria (“Ora mi guarda, o mondo: quest’è un buffone, ed un potente è questo! Ei sta sotto ai miei piedi!”). La spettrale comparsa fuori scena della voce del Duca, formidabile coup de théatre scaturito dal genio verdiano, innescherà la grottesca agnizione che ratificherà la sconfitta di Rigoletto come padre e come uomo, bollandolo “buffone per sempre”, sconfitta forse ancor più cocente del fatto di perdere la figlia.

 

L’ESERCIZIO DEL POTERE

01_Giuseppe VerdiA proposito del personaggio tenorile del Duca di Mantova, facciamo nostra la puntuale definizione fornita dal musicologo Michele Girardi, che ne parla come del “primo e unico tenore totalmente negativo del teatro verdiano: frivolo ed egoista, egli è preda di tutte le passioni più effimere che soddisfa con prontezza, abituato all’esercizio dispotico del potere. Peraltro egli canta alcune splendide melodie liriche, ma Giuseppe Verdi gliele affidò soprattutto per connotare la sua fatuità e fargli esprimere a scopi ingannevoli un sentimento che in realtà non prova mai sino in fondo, anche quando sembra andarci vicino, come all’inizio dell’atto secondo, dove si strugge per il rapimento di Gilda – colei sì pura, al cui modesto sguardo quasi spinto a virtù talor mi credo –. Quasi: infatti, non appena apprende che la ragazza è stata nascosta dai cortigiani nei suoi appartamenti, si riscuote e intona la cabaletta, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare”. Pur tuttavia la voracità sessuale del Duca trova sempre riscontro nella facilità con cui riesce a sedurre le donne che lo circondano. Tutte perdono la testa per lui, a partire dalla sfortunata Gilda, la cui ingenua adolescenziale freschezza, così evidente dal punto di vista drammatico e vocale in tutto il primo atto, si tramuterà in breve nella scelta matura e consapevole di sacrificare la vita per lui. Perfino una navigata prostituta come Maddalena perderà la testa per lui e sarà lei, di fatto, a salvargli la vita.

 

 

LA TRAMA

Atto primo – Mantova, secolo XVI

Parte prima – Gran festa da ballo a Palazzo Ducale. Il Duca di Mantova (tenore) confida al cortigiano Borsa (tenore) di aver notato da tre mesi in chiesa una ragazza sconosciuta e di essersene invaghito. Frattanto, durante la festa, egli corteggia spudoratamente la moglie del Conte di Ceprano (basso), il quale per tale motivo viene sbeffeggiato da Rigoletto (baritono), gobbo buffone di corte. In disparte, Marullo (baritono) rivela agli altri cortigiani di aver scoperto in casa di Rigoletto la presenza di una misteriosa ragazza: pertanto tutti presumono che il gobbo nasconda in casa un’amante segreta. L’atmosfera gioiosa viene interrotta dall’ingresso del conte di Monterone (baritono) che inveisce contro il Duca rivendicando l’onore della figlia da lui sedotta. In risposta ai sarcastici insulti di Rigoletto, Monterone lo maledice aspramente, prima di essere arrestato.

Parte seconda – E’ notte. Per strada, davanti alla propria casa, Rigoletto si imbatte in un losco figuro che si presenta a lui come un infallibile sicario di nome Sparafucile (basso) che all’occorrenza può uccidere chiunque venga adescato dalla sua procace sorella. Rimasto solo, Rigoletto ripensa alla maledizione scagliatagli da Monterone, lamentando la sua identità di buffone di corte che lo induce, quasi fosse anch’egli un sicario, a uccidere le persone con la propria lingua anziché con il pugnale. Rigoletto entra in casa dove viene accolto amorevolmente dalla figlia Gilda (soprano). La ragazza, che si trova a Mantova già da tre mesi, chiede invano al padre informazioni sulla propria famiglia e sui propri parenti. Costui, dopo un commovente ricordo della moglie morta prematuramente, raccomanda alla nutrice Giovanna (mezzosoprano) di custodire la purezza della fanciulla, badando a che nessuno entri in casa e accompagnandola personalmente ogni qualvolta ella voglia recarsi in chiesa. Il Duca si introduce furtivamente in casa di Rigoletto grazie alla prezzolata complicità di Giovanna. Partito il gobbo, egli si presenta a Gilda come uno squattrinato studente di nome Gualtier Maldé. I due giovani si dichiarano reciproco amore, quindi il Duca si allontana. Per strada Marullo, Ceprano e gli altri cortigiani, armati e mascherati, si accingono a penetrare in casa di Rigoletto per rapire Gilda, che essi pensano sia l’amante del gobbo. Al comparire di Rigoletto, gli fanno credere di voler rapire la moglie di Ceprano, la cui abitazione è attigua a quella del buffone. Rigoletto si offre di partecipare alla burla e, a causa dell’oscurità, non si accorge che al posto di una maschera gli viene posta intorno agli occhi una benda. Mentre egli regge una scala, i cortigiani penetrano in casa sua e rapiscono Gilda. Troppo tardi Rigoletto si accorge dell’inganno: toltasi la benda dagli occhi, il vecchio nota per terra una sciarpa persa dalla ragazza e, disperato, non può far altro che ripensare alla maledizione che lo ha colpito.

 

Atto Secondo – Palazzo Ducale

Il Duca di Mantova ha scoperto il rapimento di Gilda e si rammarica per non aver potuto evitarlo. Grande è la sua gioia quando i cortigiani gli rivelano di essere stati loro a rapire la ragazza e di averla condotta da lui: egli pertanto può correre a incontrarla. Al giungere di Rigoletto, gli uomini si scambiano occhiate d’intesa mentre il gobbo cerca di dissimulare la propria rabbia, che esplode appieno quando comprende che sua figlia si trova appartata con il Duca. Finalmente Gilda esce da una stanza del palazzo e corre ad abbracciare il padre. I cortigiani abbandonano la scena, colpiti dal fatto che si tratti della figlia del buffone e non della sua amante come invece avevano creduto. La ragazza confida al padre la storia della sua relazione con il finto studente Gualtier Maldé, che ora si è rivelato essere il Duca in persona. Rigoletto medita di abbandonare Mantova non prima di essersi vendicato del disonore subito: al passaggio di Monterone, condotto in carcere da due alabardieri, il gobbo giura vendetta per sé stesso e per lui.

 

Atto Terzo – Un’osteria alle porte di Mantova, sulla sponda destra del Mincio

E’ notte, il cielo minaccia un temporale. Per far recedere la figlia dal suo testardo amore nei confronti del Duca, Rigoletto la invita a osservare quanto accade nell’osteria gestita da Sparafucile e da sua sorella Maddalena (contralto). Gilda, in disparte col padre, vede giungere il Duca che con fare arrogante ordina del vino, una stanza per la notte e corteggia voluttuosamente Maddalena. Peraltro egli canta uno stornello che esalta la volubilità del sesso femminile: “La donna è mobile qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier”. Rigoletto esorta la sconfortata Gilda ad allontanarsi: già è stato approntato un abito maschile con cui ella partirà per Verona. La ragazza va via, mentre Rigoletto si accorda con Sparafucile per l’uccisione del Duca pagandogli la metà del prezzo pattuito; a mezzanotte sarebbe tornato per ritirare il cadavere recando l’altra metà del denaro. Mentre il Duca dorme al piano superiore, Maddalena cerca di indurre il fratello a lasciare in vita quel giovanotto che le piace tanto, proponendogli di uccidere lo stesso Rigoletto nel momento in cui fosse ritornato con il resto dei soldi, ma Sparafucile si mostra irremovibile, ordinando alla sorella di rammendare il sacco nel quale sarebbe stato posto il cadavere. Il discorso tra i due viene udito da Gilda che, all’insaputa del padre, è tornata nei pressi della locanda in abito maschile. Maddalena persiste nel suo proposito di salvare il Duca e alla fine convince il fratello di sostituire il corpo del giovane con quello della prima persona che si fosse presentata alla locanda in quella notte. Dall’esterno Gilda, che ha udito tutto, decide di sacrificare la sua vita per quella dell’amato: mentre imperversa un tremendo temporale, ella bussa alla porta della locanda fingendosi un mendicante. A mezzanotte in punto, Rigoletto si presenta a Sparafucile che gli consegna un corpo rinchiuso in un sacco e sparisce dopo aver riscosso il proprio compenso. Accingendosi a buttare il sacco nel fiume, il gobbo si sente una persona importante poiché pensa di aver finalmente annientato il suo padrone, ma all’improvviso lo sente canticchiare da lontano. L’iniziale incredulità cede il posto alla certezza: Rigoletto apre nervosamente il sacco e vi scopre la figlia morente. Ella chiede perdono al padre per averlo ingannato e muore tra le sue braccia. Rigoletto, folle di dolore, si accascia sul cadavere di Gilda constatando che la tremenda maledizione si è purtroppo avverata.

Marilù Mastrogiovanni
Facebook6k
Twitter3k
YouTube273