I profughi e le bancarelle

I profughi e le bancarelle

DIARIO DI PACE / 2

di Marilù Mastrogiovanni

I profughi e le bancarelle
Manifestazione di profughi ucraini a Cracovia in Polonia – Foto Marcello Carrozzo

Arriviamo a Cracovia che è quasi notte.

I polmoni compressi dall’afa grassa e pesante dei giorni scorsi tirano un sospiro di sollievo con quel friccicore che per noi mediterranei è primavera.

Qui a 18 gradi è estate piena.

Con Marcello Carrozzo, fotoreporter di vecchio corso e docente come me al Master in Giornalismo dell’Università di Bari decidiamo di andare a prenderci un po’ di fresco in centro. Si unisce a noi Massimiliano Rizzuni, attivista pacifista di Torrepaduli (Lecce), con anni di accoglienza sulle spalle.

Ragazze e ragazzi che bevono birra e mangiano Zapiekanka, degli sfilatini tagliati a metà per lungo e farciti tipo pizza, con formaggi, funghi e salse varie.

Chiaccheriamo fino a notte fonda su quanto sia difficile proporre una narrazione delle guerre aderente alla realtà, non polarizzata, non partigiana.

Ce ne torniamo in albergo alle tre di notte con più dubbi che certezze.

Ma non è forse questo che deve fare un reporter? Fare domande, ma farsi domande, prima di tutto.

Ci diamo appuntamento davanti al mio albergo alle 10.

E’ in pieno centro e ci muoviamo a piedi fino a Rynek Główny, la piazza principale di Cracovia, la piazza medievale più grande d’Europa.

E’ come tutte le piazze delle città turistiche europee: tante bancarelle, che vendono souvenir, calamite, cerchietti fioriti da mettere in testa, tipici delle bambole polacche. C’è Mac Donald, Hard Rock Cafè e Zara. C’è lo struscio, lo shopping, lo street food.

Ci sono i mendicanti, gli ubriaconi, gli homeless. Le famiglie in vacanza, i passeggini, le tribù di adolescenti, i giapponesi e i cinesi.

A mezzogiorno una tromba (vera) si affaccia dal campanile della basilica di Santa Maria e suona un breve pezzo struggente.

La piazza applaude, e riprende il suo brulicare.

Da lontano sentiamo un altoparlante, è al centro della piazza.

Sventolano bandiere ucraine. Sono un gruppo di rifugiati ucraini accolti da poco a Cracovia.

Hanno preparato una campagna di comunicazione molto efficace, che vuole colpire allo stomaco: una bambola, un orsacchiotto, un giocattolo rotti e insanguinati e in alto una semplice parola: i nomi delle varie città Ucraine bombardate.

Ci sono manifesti con slogan “Basta uccidere i bambini ucraini”, oppure “Mariupol, gli eroi della resistenza ucraina”.

Bambine e bambini di 8-10 anni reggono i poster con le immagini dei giocattoli insanguinati. Sono fatti avanzare in prima fila.

Alcune donne sventolano la bandiera ucraina: Nina e Tania, mamma e figlia, di 43 e 62 anni, di un paesino del nord dell’Ucraina, a 15 kilometri dalla frontiera russa. Prima della guerra l’una di mestiere faceva l’insegnante, l’altra era pediatra. Ci sono Yulia e Natalia, di 52 e 24 anni, anche loro mamma e figlia, l’una insegnante di matematica, l’altra ingegnera. Sono di Cherkasy, un paesino del centro Ucraina.

C’è Halina, ingegnera di 62 anni, suo figlio Ivan fa il soldato di mestiere, dal 2014, nel Donbass. Perché la guerra va avanti da otto anni, precisa.

Nina ha 18 anni è di Dnipro e canta una canzone triste e fiera, un inno della resistenza. Tutti applaudono, poi alcuni voltano le spalle e continuano a fare lo struscio, con un prezel tra le mani.

I prezel sono buoni ed è quasi ora di pranzo.

Il loro profumo si leva più in alto delle note della canzone cantata dalla ragazza.

I profughi ucraini ringraziano la Polonia che li sta accogliendo.

Dopo aver parlato con loro e aver fotografato i loro volti, gli slogan e i loro poster, penso che quegli stessi poster sarebbero inutilizzabili, perché inverosimili, per un’altra guerra, da un’altra parte del mondo, un mondo diverso dal nostro, dove i bambini non hanno orsacchiotti, né bambole, né giocattoli e dunque non avrebbero gli stessi oggetti così familiari ai nostri, da rappresentare insanguinati, per emozionarci, per darci un pugno nello stomaco. Eppure muoiono i bambini, in guerre che non sono a favore di telecamera, né a favore dei social.

Bambini che giocano coi legnetti, o con fili di rafia, o con macchinine fatte di lattine riciclate. Quanti ne ho visti nelle slam alla periferia di Addis Abeba in Etiopia o nelle slam di Windohek, in Namibia. Immaginate un poster con un legnetto insanguinato, o un filo di rafia, o un pezzo di lattina che vagamente ricorda una macchina: anche se la rappresenti insanguinata, il pugno nello stomaco non lo senti.

Sono così lontani da noi. Sono neri.

E allora, dopo aver parlato con Tania, Nina, ecc ecc e aver fatto loro dei primi piani, ed essermi emozionata per loro, con loro, ho trovato l’inquadratura giusta per raccontare quello che ho visto oggi.

Mi sono posta dietro l’espositore di una bancarella di souvenir, e da lì, ho guardato, da lontano, quel gruppo di profughi e le loro bandiere.

Mercificati anche loro, esposti, con le loro vite così simili alle nostre e per questo così insopportabili a vederle fatte a pezzi e adagiate su bancarelle in attesa che il ricco occidente faccia i suoi giochi, mentre si gode lo spettacolo, con un prezel in una mano e un HIMARS anticarro nell’altra.

Nel pomeriggio la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci, conservata al museo Czartoryski mi riconcilia con tutta la bellezza di cui è capace l’animo umano.

La contemplazione dell’arte mi fa provare esattamente lo stesso sentimento di pace, felicità e speranza che provo arrivando all’hotel Metropolo, dove incontro parte degli attivisti e delle attiviste che parteciperanno alla marcia della pace su Kiev: abbraccio Angelo Moretti, portavoce del MEAN, il movimento europeo di azione non violenta, Marianella Scavi, che con lui coordina la missione, e tanti altri.

Ci abbracciamo e ci diamo appuntamento alle 5 della mattina. Partiremo alla volta di Melyka, sulla frontiera ucraina.

Siamo, insieme, un’opera d’arte che si fa azione. Leggera ma solida. Senza confini.

Marilù Mastrogiovanni
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