Metti che l’Università va in carcere

Metti che l’Università va in carcere

Cronaca di un “normale” corso universitario dietro le sbarre

di Marilù Mastrogiovanni

Il carcere di Bari è un edificio bello. Come sono belli i palazzi del Sud dei primi del Novecento: mura spesse e di pietra, finestre grandi e grandi portoni.

E’ nel cuore della città in mezzo a palazzi e scuole. Dalle finestre dei condomini che lo circondano si può vedere quello che accade nei cortili del carcere e anche all’interno delle celle.

Il pavimento di graniglia porta impresso il ricordo del passaggio di migliaia di anime. Al centro dei corridoi, e solo al centro, i mattoni sono consumati. Immagino lunghe fila di persone che si spostano per andare, per fare.

Le porte e le sbarre sono di un bel celeste cielo. Così, quando il cielo è limpido e il blu turchese della tonalità che usano i bambini per dipingerlo sereno, se uno stringe gli occhi e guarda lontano, le sbarre non le vede.

I soliti rituali: lasciamo tutto negli armadietti, ci identificano.

Poi lunghi corridoi con porte e sbarre celesti ci conducono verso l’ala educativa: le aule dove i detenuti studiano per conseguire il diploma in collaborazione con l’ITC Romanazzi, il laboratorio tecnico, la biblioteca, la chiesa, la sala conferenze.

Una bella aula con i muri color glicine, le sedie imbottite blu, e tutta l’attrezzatura per le conferenze: pc, proiettore, microfono.

I detenuti ci aspettano seduti. Occupano metà della sala e, di ogni fila, ne occupano metà.

Così le studentesse dell’Università di Bari che devono seguire il seminario vanno ad occupare l’altra mezza fila di poltroncine: ogni fila è perciò occupata per metà dai detenuti e per metà dalle studentesse.

Io sento l’elettricità che corre in quella vicinanza. O forse l’immagino perché so che la privazione sessuale nelle carceri è una forma di tortura.

Iniziamo subito, non c’è da perdere tempo. Abbiamo due ore e per organizzare questo seminario universitario sono dovuti venire degli agenti di polizia penitenziaria da Altamura, perché il carcere, come tutti i carceri italiani, è sovraffollato di detenuti e sotto-organico di agenti.

C’è un agente ogni 70 detenuti. Il carcere è progettato per 299 posti e invece ospita 467 persone.

“Quando la mattina presto sento gli elicotteri ho già i brividi perché so che arriveranno e non sapremo dove metterli”, afferma la direttrice Valeria Pirè all’incontro di preparazione organizzato per gli studenti qualche giorno prima in Università.

All’interno c’è una clinica che segue 140 detenuti con patologie conclamate di cui 40 casi clinici (per esempio persone che hanno tentato il suicidio o affette da schizofrenia).

La direttrice Valeria Pirè introduce Ignazio Grattagliano, docente di Criminologia all’Università di Bari, Luigi Cazzato, Ordinario di Letteratura inglese e coordinatore del master in Giornalismo, e me.

Il titolo del seminario è “Cultura, giornalismo, discriminazione: noi e gli altri”. Su questo crinale si dipana la matassa del ragionamento di Cazzato che punta a voler dare strumenti teorici per riconoscere e distinguere varie tipologie di discriminazioni.

I detenuti sono attenti, silenziosi, immobili. Iniziano poi a interagire quando il prof propone alcuni titoli di quotidiani sessisti, razzisti, densi di stereotipi. Inizia la discussione su “patata bollente” di Libero, su “un passo indietro” di Amadeus, su “una banca di bari”, e su quel doppio senso dietro la “b” minuscola.

Hanno idee precise e le argomentano. Le studentesse osservano, prendono appunti.

Il mio intervento parla di libertà d’espressione, diritti umani, carte dei detenuti, cioè del diritto dei detenuti ad essere raccontati con onestà rispettando la loro dignità. Parliamo di diritto di replica, rettifica, oblio.

Tutti si ritengono vittime della narrazione giornalistica.

E lo sono davvero: chi è stato prosciolto ma non s’è data notizia, chi è stato sbattuto in prima pagina con la foto segnaletica nonostante sia vietato dalla carta deontologica sui diritti dei detenuti.

Ci sono detenuti condannati in via definitiva, anche per mafia. Uno di loro lamenta che un giudice, poche settimane dopo l’operazione della Dda di Reggio Calabria che l’aveva coinvolto, ha pubblicato un libro con i dettagli dell’indagine alla base dell’imputazione da cui però fu prosciolto.

Nessuna rettifica, il libro rimase ed è in libreria.

C’è chi ha scontato la pena ma il suo nome è ancora online. E tutti leggono, tutti vedono, in primis i figli, i parenti, soffrendo.

Spiego come fare, e a chi, una richiesta di rettifica e una richiesta per de-indicizzare gli articoli su Google. Spiego il difficile equilibrio tra diritto-dovere di cronaca e il dovere di tutelare la dignità delle persone.

Poche gocce di speranza: era quello che volevo. Far sapere loro che hanno dei diritti anche nel settore dell’informazione e che la loro libertà d’espressione è inalienabile, è uno dei diritti umani insopprimibili.

Vogliono continuare a discutere, vogliono fare altri incontri, voglio seguire altri corsi universitari, vogliono continuare ad avere diritto di parola. Ci chiedono di ritornare a tenere lezioni.

Abbiamo centrato l’obiettivo. Non più “noi e gli altri”: siamo un “noi”.

Metti che l’Università va in carcere
L’Università entra nel carcere di Bari. ph: Luigi Cazzato
Marilù Mastrogiovanni
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