Mafia in Puglia, la liberazione passa dalla libertà di stampa

Mafia in Puglia, la liberazione passa dalla libertà di stampa

DI Marilù Mastrogiovanni

Quello che hanno fatto Giulio Golia e Francesca De Stefano nella puntata de Le Iene – Inside” del 27 aprile 2025 è molto importante: dare una visione d’insieme delle mafie in Puglia, ancorandole storicamente e analizzandone la trasformazione da fenomeno folkoristico a mafia organizzata e imprenditoriale con diramazioni all’interno della pubblica amministrazione. Un servizio di oltre tre ore che ha anche il merito di aver valorizzato il lavoro giornalistico di chi, come me, ha sempre cercato di inquadrare la criminalità organizzata non come fenomeno episodico, ma complesso, strutturato, endemico. Il servizio de Le Iene Inside restituisce dignità anche al lavoro d’inchiesta portato avanti da il Tacco d’Italia, perché lo riconnette a quello, di altro genere e con altri fini, portato avanti dalla magistratura, dalle forze dell’ordine, dal mondo dell’associazionismo e del civismo, tutti espressione di diverse declinazioni dell’azione democratica resa possibile dallo Stato di diritto.

I giornalisti Luca Pernice del Corriere della Sera e Giuliano Foschini de La Repubblica, a cui Golia ha affidato il commento della puntata, insieme al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, hanno riconosciuto ed evidenziato la condizione di isolamento in cui ho svolto il mio lavoro di giornalista. Un isolamento che mi ha esposto a minacce, violenze, ritorsioni e decine e decine di querele temerarie, tutte risolte con archiviazione o assoluzione, che probabilmente non avrei subìto se avessi scelto un padrone, di qualunque tipo: politico, finanziario, ideologico.

I miei padroni invece sono sempre state le lettrici e i lettori: il piano editoriale del mio giornale è stato dettato dalla Costituzione. Ho sempre detto che finché fossi riuscita a soddisfare il loro mandato avrei scritto, altrimenti mi sarei fermata. Ho rifiutato pubblicità perché non etiche, hanno ritirato la pubblicità perché il Tacco è etico.

Tuttavia, nonostante i tanti attestati di solidarietà, il riconoscimento della professionalità, della qualità del mio lavoro e del coraggio, non ho ricevuto mai offerte di collaborazioni giornalistiche degne di questo nome.

Il mio lavoro giornalistico è stato molto più richiesto all’estero.

Quindi se sono isolata ed esposta, devo chiedermi e devo chiedervi, chi mi ha isolato ed esposto, e perché lo hanno fatto o perché non lo hanno impedito.

Il primo grosso documentario sul Tacco d’Italia è del 2016, fatto da Rai1 (trasmissione Cose Nostre). Ne sono seguiti molti altri. Ho vinto molti premi, ho presieduto, prima italiana nella storia, la giuria del premio mondiale per la libertà di stampa di UNESCO, intitolato al giornalista “Guillermo Cano”.

Tante pacche sulle spalle, ma, Marilù, “statti a casa tua”.

E io qua sto, in Puglia. Se volete, sapete dove citofonare.

L’Università di Bari, dipartimento For.Psi.Com e il Master in Giornalismo mi hanno dato un grande spazio di libertà: insegno “giornalismo d’inchiesta” alle generazioni delle future giornaliste e giornalisti e abbiamo una grande responsabilità, perché siamo l’unico master che dà accesso alla professione giornalistica del Sud Italia, isole comprese. Chissà se riusciremo a cambiare un pezzetto di mondo, cambiando le parole con cui il mondo viene raccontato e facendo e insegnando un giornalismo etico: io ci credo.

Le donne curde del Rojava, dove ho condotto ricerche sul campo per il mio dottorato di ricerca in “scienze delle relazioni umane”, mi hanno insegnato che ogni nostra azione deve avere un fine pedagogico e trasformativo, affinché ogni gesto, anche lo stare ferma, il restare, sia “politico”, e quindi possa incidere nella realtà.

 Anche da “accademica” continuo a fare ricerca, nel settore della pedagogia speciale e della sociologia, nell’unico modo in cui per me ha senso farla: consumando le scarpe, stando sul campo, immergendomi nei margini e diventando margine io stessa, per dare voce alle persone marginalizzate e invisibilizzate.

Tutto questo ha un senso? Per me è l’unico senso che io possa trovare nel fare il mio lavoro, sia di giornalista sia di ricercatrice e docente universitaria.

Tutto questo ha un prezzo? Certo. Sono precaria da sempre, spero non per sempre.

Ripudio ogni qualificazione: coraggiosa, eroica, guerriera. Cioè che mi definisce mi limita e mi da una cornice. Non voglio cornici, perché sono recinti: servono a mettere le distanze tra noi e l’altro: “Eh! Come sei coraggiosa, sei una guerriera, tu sei un’eroina”! Ovvero: tu sei fatta in un certo modo, hai le caratteristiche per fare quello che fai, non tutti possono farlo, perché non tutti hanno le tue qualità.

Davvero?

Io non sono nata giornalista, né ricercatrice, né coraggiosa, né per lottare né per essere considerata un’eroina. Credo che nessuno dovrebbe accollarsi la responsabilità di essere un eroe, perché mentre lo fa, sta sollevando gli altri da un pezzetto della loro.

Serve invece fare fino in fondo il proprio dovere. È una responsabilità, quella di fare fino in fondo il proprio dovere, che tutti dovrebbero assumersi.

In fondo, non faccio che questo. Vado fino in fondo alle mie scelte.

Serve la volontà collettiva, in primis istituzionale, perché se una sola persona rimane indietro, sta rimanendo indietro con lei tutto il sistema valoriale che quella persona esprime.

Nessuno si libera da solo. Le femministe, e io lo sono, ce lo hanno insegnato: la liberazione del singolo avviene all’interno di una comunità quando la comunità riconosce il valore di ciascuno, il valore specifico di ognuno, e all’interno del collettivo.

Rimanere, è una forma di resistenza. Forse la più estrema. Penso alle popolazioni oppresse, alle donne curde, palestinesi. Resistere ad ogni forma di colonizzazione, dei corpi e del pensiero, dei luoghi fisici e simbolici, delle città e dei territori, si può, stringendo alleanze con i luoghi, le genti, le città, i popoli oppressi, non per liberarli, ma per liberarci, insieme.

PS: Grazie a Giulio Golia, Francesca De Stefano e Gaetano Pecoraro per aver voluto illuminare la storia del Tacco d’Italia e la mia personale, collegandola allo scenario del radicamento della sacra corona unita pugliese, ormai consolidato a tutti i livelli.

Marilù Mastrogiovanni
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