Casalegno: il giornalismo come missione laica

Casalegno: il giornalismo come missione laica

Quaranta anni fa moriva assassinato dalle Brigate, Carlo Casalegno, vicedirettore del quotidiano “La Stampa”. Era il 16 novembre 1977. Il ritratto tracciato dal figlio Andrea

Di Marilù Mastrogiovanni

//L’INTERVISTA E’ servito a qualcosa farsi ammazzare per la democrazia? Che cosa rimane dell’esperienza di suo padre?

L’ho chiesto ad Andrea, figlio di Carlo Casalegno. Giornalista e mamma, ero alla ricerca di una risposta che mi giungesse dal futuro, dai miei figli. La vera domanda, non espressa, era: “Può un figlio capire, alla fine, l’estremo sacrificio di un genitore per l’alto valore etico e democratico di questo mestiere”?

Andrea, quando suo padre, vicedirettore del quotidiano torinese “La Stampa”, fu assassinato nell’androne di casa dalle “Brigate rosse”, con quattro colpi di pistola al volto, aveva 33 anni, ed era già padre, a sua volta.

Era il 16 novembre 1977.

A rileggere i fondi di Carlo Casalegno – teneva una rubrica settimanale, “Il nostro Stato”, l’unica che dava la ‘linea’ del giornale, assieme agli editoriali del direttore Arrigo Levi, si respirano freschi e vividi gli ideali democratici e antifascisti su cui si era fondata la nostra Costituzione, il nostro Stato: era stato egli stesso tra i protagonisti della lotta partigiana, tra i fondatori, con Bobbio, del Partito d’Azione, collaborando al giornale clandestino ‘Italia libera’.

Quando scrisse il corsivo che gli costò la vita (ma le minacce e gli avvertimenti erano stati numerosi, tanto che per un periodo aveva condiviso la scorta con Arrigo Levi), non fece altro che aggiungere un’asserzione di principi democratici a quelli enunciati negli anni di vicedirezione.

Il titolo era “Non occorrono leggi nuove, basta applicare quelle che ci sono – Terrorismo e chiusura dei covi” e così scriveva Casalegno: «Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l’eversione, purché siano applicate con risolutezza imparziale contro tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati».

Che cosa ha avuto di dirompente e pericoloso affermare questo? Il fatto che chiedesse di applicare le leggi? Possibile?

Una ‘pretesa’ così attuale, che perfino la nostra Costituzione è inapplicata in troppi articoli, perfino in quelli fondamentali.

È difficile immaginare quegli anni e quel giornalismo allo stato puro per chi ha vissuto la sua giovinezza nell’era berlusconiana.

“La ragione dell’assassinio – mi spiega suo figlio Andrea – risiede in un insieme di articoli. Certamente mio padre tra tutti i giornalisti italiani in quel momento era il più esposto. Era molto autorevole, interveniva settimanalmente su questi temi e la sua linea era quella di applicare rigorosamente le leggi senza ricorrere assolutamente ad alcuna legge speciale. E questa era la linea che i terroristi temevano di più perché preferivano confrontarsi con uno Stato che violava le proprie leggi piuttosto che con uno Stato democratico rigoroso. Del resto tutti lo sapevano quanto lui fosse esposto. Lo sapevano tutti i colleghi.

I terroristi colpirono due magistrati di sinistra Alessandrini e Galli e assassinarono Walter Tobagi, giornalista socialista. La loro linea era eliminare gli uomini migliori del fronte democratico borghese. Quelli di mio padre erano articoli su una linea di fermezza nei confronti del terrorismo, ma fermezza legale senza alcun tipo di rinnovamento del nostro Ordinamento giuridico. Tutto qua”.

Scriveva nel 2002 Arrigo Levi, suo direttore: “Quando i suoi assassini lo denunciarono come «un servo dello Stato» gli resero l’omaggio più alto che meritava. Altro non era, e non voleva essere, che un servitore dello Stato democratico”.

Per lui, dice Andrea, “servitore dello stato era un complimento. Non un insulto”.

Un eroe borghese.

Ma il concetto di eroismo e coraggio, a parlare con Andrea e a leggere quello che i suoi colleghi hanno scritto di lui, gli era estraneo.

Piuttosto quello di dovere, di cui era intrisa ogni sua azione. Etica e deontologia professionale, il dovere di capire la realtà, per poi raccontarla, possibilmente spiegarla.

Esserci, osservare, mai tirarsi indietro, mai distogliere lo sguardo. La responsabilità, a cui mai si voleva sottrarre, di guardare e vedere. E poi scrivere.

Tutto questo mi arriva oggi: mentre scrivo, nel meriggio del 16 novembre 2012, sono passati 35 anni dall’attentato.

Quattro colpi esplosi in faccia perché lo volevano morto.

Nelle settimane precedenti la sua morte Carlo Casalegno aveva chiesto al direttore di farsi inviare a Bologna per seguire la manifestazione dei gruppi extraparlamentari, l’ultima grande manifestazione che sancì la spaccatura tra la frangia più violenta, quella della cosiddetta Autonomia operaia, che si collocava ancora più a sinistra rispetto ai gruppi extraparlamentari, e il resto del movimento. “Un magma protestatario e ribellistico”, lo definiva Casalegno.

Pochi mesi prima si era sciolta Lotta continua, di cui Andrea, suo figlio, era stato un militante.

Ricorda Andrea: “Il rapporto personale con mio padre si svolgeva su un binario parallelo rispetto a quello della politica e dei temi sociali. Scriveva articoli sui democristiani indagati, sostenendo che le leggi andavano applicate anche contro i potenti, non solo verso chi voleva sovvertire lo stato con la lotta armata. Era un democratico borghese, non certo un conservatore e non credeva nel Comunismo”.

Fu il primo giornalista ucciso dalle Br. Da allora l’Italia fu travolta in una voragine di violenza: dopo quattro mesi fu rapito Aldo Moro.

“No, non fu inutile – scrisse Arrigo Levi- la nuova resistenza di uomini come Carlo Casalegno, che la Resistenza l’avevano già fatta, e che dalle loro idee
di giovani democratici antifascisti traevano la loro forza”.

L’insegnamento più importante di Casalegno?

“L’esempio”, è la risposta di Andrea: “Sapendo di rischiare la vita, perché ne era perfettamente consapevole, è andato avanti per la sua strada. Il direttore Arrigo Levi, gli aveva proposto di scrivere di altri argomenti, per un certo periodo. Ma lui rispose ‘non se ne parla neanche’. Mi pare che insegnamento più importante di questo non esista. Questo è molto vicino anche ai rischi che correte lei e i suoi colleghi con la vostra attività, quindi lo potete capire molto bene. O no”?

Si.


L’intervista ad Andrea Casalegno, figlio di Carlo, è uscita in occasione dei 35 anni dall’assassinio del padre ad opera delle Br, all’interno del libro “Passaggio di testimone”, Navarra editore, Palermo 2012

Il ricavato dalla vendita del libro è stato devoluto all’associazione “Le siciliane”.

Marilù Mastrogiovanni
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