8 marzo, siamo tutte Torpekai Amarkel

<strong>8 marzo, siamo tutte Torpekai Amarkel</strong>

E’ una delle decine di vittime di Steccato di Cutro, in Calabria, morta nel naufragio del barcone partito dalle coste del sud della Turchia.

Faceva la giornalista a Kabul, aveva 42 anni ed era mamma di tre figli.

Sono stati ritrovati i corpi del marito e di due dei suoi bimbi, mentre la terza figlia è dispersa.

Aveva lavorato per anni alla radio nazionale afghana, aveva fatto parte della redazione di una radio tutta al femminile e aveva lavorato per l’Onu al progetto “Unama News”. Era una giornalista-attivista. Impegnata per i diritti delle donne, stava realizzando dei reportage sulle proteste e sulla condizione delle donne e delle bambine, a cui i talebani vietano ogni diritto umano fondamentale: di andare a scuola, all’università, di lavorare, perfino di andare al parco anche se col capo coperto.

Per questo, per il suo lavoro di giornalista che cercava di dare voce alle donne, la sua vita era in pericolo ed era dovuta fuggire portando con sé la sua famiglia, costretta a scegliere la strada più pericolosa, quella dello smuggling, della migrazione clandestina, affidandosi a trafficanti e poi a scafisti, spesso anche loro vittime. Costretta da un’Europa vecchia e decadente che preferisce alzare steccati sui suoi confini e finanziare guerre, piuttosto che battere la strada imbattuta e impervia della diplomazia e dei flussi migratori regolamentati secondo nuove regole che consentano di immettere linfa vitale nel corpo morente di un Continente malato.

Torpekal Amarkel è morta sulle coste, italiane, fuggita da un regime confessionale totalitario e patriarcale ma è stata condannata a morte molti anni fa da tutti noi; dagli Usa, che hanno fornito le armi ai talebani trasformandoli in esercito (con l’aiuto dei servizi segreti pakistani e dei sauditi), per poi ingaggiare una guerra lunga 20 anni e infine scendere a patti nel 2020 fingendo di credere che i talebani potessero essere “illuminati”; dall’Europa, che finanzia la Turchia pur di non far arrivare i profughi nel territorio dell’Unione; dall’Italia, che finanzia la Libia purché i profughi siano trattenuti in quei lager che si trovano a poche miglia dalla spiaggia dove è morta Torpekai Amarkel.

Marilù Mastrogiovanni
Facebook6k
Twitter3k
YouTube273